Catania è piena di contraddizioni: da un lato palazzi sontuosi, dall’altro zone in degrado; da un lato eventi culturali, dall’altro situazioni socio-economiche difficili; da un lato il progresso verso la parità di genere, dall’altro una cultura ancorata al patriarcato; da un lato una mentalità aperta all’inclusione, dall’altro discriminazioni a livello lavorativo e sociale.
Sono molte però, le realtà che cercano di abbattere questi contrasti, con l’obiettivo di rendere la città più aperta, sicura e rispettosa dei diritti di tutti i suoi cittadini.
È questo il caso di Truccheria Cherie, che parte dal make up per diffondere messaggi di inclusione e rispetto. Boutique di bellezza che diventano rifugi accoglienti per tutti, senza distinzione di genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità o qualsiasi altra caratteristica personale.
Abbiamo intervistato Orazio Tormarchio, fondatore del format che ha dato vita a 13 concept store e Make up Room diffuse in tutta Sicilia, a un e-commerce, a una Accademia di trucco e a linee di make up e profumi, da poter creare anche su misura, e prodotti di skin care bio realizzati in Sicilia, ad Acireale, con materie prime naturali e locali come la mandorla.
In occasione del lancio della sua ultima collezione make up “My Skin: including diversity”, abbiamo conversato con lui sul significato di inclusione e diversità, partendo proprio dalla sfera dell’aspetto estetico.
Qual è il tuo personale significato di inclusione?
La mia personalità non può che trasmettere un messaggio di inclusione. Sono inclusivo sin da piccolo, sin dai tempi della scuola. Io in primis ero “diverso” per come mi esprimevo, dal particolare colore dei capelli all’abbigliamento.
Nonostante ciò, non mi sono mai sentito discriminato, neppure in collegio. O meglio, ho sempre avuto un carattere forte e non mi sono mai spaventato di niente. Quindi, se qualcuno mi rivolgeva un commento, io non me ne facevo un problema. Ma c’erano compagni più sensibili. Alcuni venivano a scuola con calzino o grembiule bucato e io cercavo di proteggerli da chi provava a ferirli.
Quindi ero io che facevo da legante. Per me essere inclusivi significa fare da collante dove c’è qualcosa di rotto.
E io credo che ci sia qualcosa di rotto in generale, nella psiche dell’essere umano, che spinge tutti a dispensare giudizi negativi sul fisico degli altri, sul colore della pelle, sull’abbigliamento e sul trucco.
L’inclusione in un negozio di abbigliamento o in Truccheria sta nell’ascoltare quella rottura e nel capire quale potrebbe essere il tassello utile a fare da collante per le insicurezze.
Come hai applicato questo concetto nel make up?
Vent’anni fa, quando aprii la prima Truccheria Cherie a Taormina, non ascoltavo mai le esigenze delle clienti. Facevo sempre tutto di testa mia e decidevo sempre io come procedere. Quindi non ascoltavo e non ero inclusivo.
Oggi, invece, quando arriva una cliente in boutique, magari mi confida una sua insicurezza, la ascolto e creo sul momento il suo trucco ideale. Dico sempre che il make up è come la biancheria intima: se è sbagliato, sei scomodo tutta la giornata.
Il trucco, invece, deve essere facile, leggero, portatile e soprattutto su misura. Ho tante clienti dalla pelle nera, per le quali ho creato un fondotinta ad hoc, in base alla propria tonalità di pelle.
Purtroppo a Catania, le profumerie e i grandi magazzini non prendono in considerazione questa esigenza, mentre noi vogliamo che tutte/i possano provare la gioia di acquistare il proprio make up provandolo, tastandolo, sentendone gli odori.
Questo è il nostro principale tassello verso l’inclusività, anche se stiamo agendo anche su altri fronti.
Ad esempio, abbiamo in atto una collaborazione Acto Sicilia e il reparto di oncologia dell’Ospedale Cannizzaro di Catania. Alle pazienti che subiscono grandi cambiamenti nel proprio aspetto, offriamo in Truccheria trucchi gratis a vita e servizi gratis a vita.
Sono un uomo che lavora con le donne e guadagna grazie soprattutto a loro. Questo è il minimo che possa fare..
Inclusione è anche non fare discriminazioni all’interno dello staff. Esistono ancora grandi catene commerciali e negozi che a Catania non accettano dipendenti transgender. Io mi oppongo a questa grande ingiustizia.
Nel mio team è presente una donna transgender con contratto in regola e tutti i diritti che spettano ad ogni lavorate. Non dovrebbe nemmeno essere necessario specificarlo, purtroppo ancora lo è.
Qual è il tuo approccio nei confronti del concetto di bellezza? Siamo ancora troppo ancorati a uno stereotipo standardizzato, secondo te?
Io sono il primo fautore di medicina estetica, lo si nota subito dal mio volto. Ma lo faccio con consapevolezza da quando avevo 20 anni. Lo faccio perché l’ho deciso io, principalmente per la paura di invecchiare ma non ho mai seguito un “volto guida”.
L’insicurezza di oggi è diversa. Le immagini sono stereotipate, dai filtri e dai ritocchi, quindi si prende come punto di riferimento qualcosa che non esiste nella realtà.
Se ho un concetto di bellezza in questo momento? Sinceramente non più. Parlo di me stesso, il mio cambiamento fisico è continuo, per alcuni può essere esagerato però fa star bene me.
È tutto puramente soggettivo.
Esiste un concetto di bellezza democratica, secondo te?
Purtroppo non a Catania. Qui c’è sempre una critica pronta. Anche chi si impegna molto per stare bene con se stessa/o, viene criticata/o. Se ti alleni, curi la tua pelle e i capelli, vieni sempre e comunque criticato.
È sempre più difficile che vengano fatti complimenti. Quindi, qui il concetto di bellezza non è né democratico né meritocratico.
Personalmente, ho deciso di non dar peso alle parole che mi seguono quando cammino in città, vado avanti consapevole e contento di rappresentare l’inclusione e la diversità.
Però mi rendo conto che c’è ancora molto da fare. Per fare un paragone con l’estero, sono appena tornato da Parigi e lì, se la gente mi fermava, lo faceva per fare complimenti o semplicemente incuriositi dalla diversità.
Cosa caratterizza la tua ultima collezione di make up “My Skin”?
Fondamentalmente tutto ciò che ci siamo detti fino ad ora. Si tratta di prodotti altamente personalizzati e pensati per la realtà. Per questo ci siamo molto impegnati nella realizzazione di una campagna fotografica che esprimesse al meglio questo concetto.
Abbiamo coinvolto volti di ragazze che non fanno le modelle a livello professionale, ma mi avevano colpito tutte per un particolare nel loro volto. Non sono “perfette” secondo gli standard, ma sono meravigliose.
Abbiamo scelto poi di non apportare alcun tipo di post-produzione al loro viso. Volevo che le immagini fossero reali, che si vedessero i pori, le piccole rughe, alcuni “difetti”, se li si può definire così, normalissimi della pelle.
Voglio che le donne vere si sentano rappresentate, che vengano qui sentendosi accolte e a proprio agio, senza essere necessariamente legate ai principi dell’armocromia, troppo limitante nella creatività e nell’espressione di sé e stigmatizzante socialmente.
Qui, che definisco una sartoria del make up, possono essere se stesse. Possono aprirsi e rivelare le proprie insicurezze: le custodiremo per prenderne spunto e creare il trucco ideale, che le faccia sentire bene nella propria pelle.
Credo che stia lì il significato di bellezza: stare bene con se stessi/e.