Hybla Major, la sua acropoli, sono uno scrigno di storia e bellezza. Un paesaggio sconosciuto, una terrazza verso il vulcano Etna e il fiume Simeto, custode di segreti e misteri. Da millenni è crocevie di popoli e merci, di santi e dee, di soldati e artisti. Lungo le rotte che collegavano Siracusa a Himera o Agrigento a Messina. Lungo un sentiero di miti e acque sulfuree, collegata al mare da un fiume, presidio militare e santuario femminino.
Oggi la conosciamo come Paternò, inghiottita da una modernità vorace, sepolta da un cimitero, isolata dalla dimenticanza, marginalizzata dalle nuove direttrici della mobilità regionale, come tanti centri urbani – diventate aree interne – scalzati dalle autostrade in attesa di una rinascenza.
Il nostro viaggio nella memoria comincia da questo baricentro, da questo luogo sacro agli dèi, a Hybla, la dea conosciuta anche come Venere. Un viaggio verso la dimensione policentrica della Sicilia e verso i porti del Mediterraneo. Da una città che, insieme a Catania e Lentini, rappresentava il nodo strategico del potere siracusano e dei suoi tiranni, nella Sicilia orientale.
L’acropoli, su cui sorgeva la città alta – cara alle api – era un antico vulcano, più antico dell’Etna. Fatto di pietra nera che sfiora l’acqua, dentro una valle dai colori caldi e biancastri, spicca il suo profilo nobile e austero che si mostra sia a levante e ponente. Uno spazio che svela il suo reticolo visuale – verso altre città, verso altri misteri – dentro una rete di sentieri e vie che generano una topografia del mito.
Architetture e paesaggio, templi e chiese, acquedotti e mura difensive, tutto rappresenta il conflitto tra bianco e nero, tra fuoco e acqua, tra bene e male. Forse anche tra paganesimo e cristianesimo, tra profondità e orizzonte, mediati da una transizione iconografica a volte drammatica, fino a diventare “nascondimento”. Come l’origine del suo nome e le ragioni della sua mutazione. Hybla (Major), come Venere, poi Parthènos come la Vergine Maria, fino a diventare Paternionis e infine Paternò.
Una metamorfosi teologica, antropologica, un esorcismo che afferisce al codice Teodosiano (IV sec.). A mediare questo processo, questa transizione, una madonna nera, quella di Santa Maria dell’Alto, una madonna che ha le sue radici iconografiche in Demetra e Iside e il suo germoglio bizantino in Maria, custode della città, prima di Barbara.
L’acropoli, nella sommità, accoglie ancora le tracce di questa storia, emerse e sommerse. Una torre Normanna, modellatala da Federico II, oggi simbolo della città; il tempio di Demetra-Iside diventata chiesa; un acquedotto sotterraneo – forse – del IV sec. a.C. costruito con la tecnica di Eupalino di Samo; una rete di condutture idriche urbane greche-romane; un santuario di Hybla, sepolto sotto il convento di San Francesco e tante altre fabbriche antiche da dove è possibile osservare, anche di notte, il paesaggio della valle, fertile e ricco d’acqua e della montagna di fuoco, che svetta nel cielo. Dentro una città che ha accolto monaci Basiliani, Benedettini, Tempari, Francescani, Carmelitani e altri ancora.
Uno spazio ancora tutto da scoprire e indagare, ma nello stesso tempo godibile già oggi dal viaggiatore, che può contemplare molte opere artistiche in città come quelle di Sofonisba Anguissola e di Antonello Gagini, le Madonne dell’Itria e della Catena.
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