Valerio D’Urso e l’arte del ritorno: ritratti su carta, luce e memoria a Catania

da | Mag 13, 2025 | Storie di oggi

Non tutti i ritorni hanno il rumore dei passi: alcuni sono silenziosi come la luce che attraversa un soffietto in legno centenario, per poi imprimersi su un foglio di carta come un sussurro definitivo. Valerio D’Urso, fotografo dalla traiettoria internazionale, non è tornato in Sicilia per nostalgia. È tornato per un’urgenza più profonda, ovvero quella di restituire lentezza al tempo, materia all’immagine, verità al volto umano.

Il 3 e 4 maggio, il suo studio nel cuore di Catania – Spot22, un luogo che vive tra sala pose, incontri, camera oscura e attrezzature d’epoca – è diventato teatro di un evento prezioso; un workshop che è stato più un’offerta rituale che una lezione tecnica. In questo spazio dove convivono silenzio e visione, ha preso forma un nuovo progetto fotografico che sfida il tempo, l’abitudine e la superficialità a cui ormai lo sguardo contemporaneo è abituato.

Valerio D’Urso, con la maestria di un artigiano del secolo scorso e la sensibilità di un autore del nostro tempo, ha scelto di lavorare con una macchina fotografica dei primi del Novecento, in formato 18 x 24 cm. Non usa pellicole, non ricorre al digitale, imprime l’immagine direttamente su carta fotografica. Il risultato non è semplicemente un ritratto, ma si trasforma in una presenza. Un’apparizione.

Ogni scatto è un atto di concentrazione e ascolto. Il soggetto si siede, il tempo rallenta, la luce scivola, la carta respira. Ciò che viene catturato è unico, irripetibile, imperfetto e per questo autentico. Un frammento di identità.

Accanto a lui, durante questo laboratorio unico, alcune figure di spicco della scena analogica contemporanea hanno arricchito l’esperienza, ognuna con una visione distinta e complementare.

 

Alberto Ciprian, una mente analogica che dal 2017 esplora materiali fotosensibili alla ricerca di un linguaggio visivo autentico e personale. Lavora con stampe Fine Art, antiche tecniche e positivi in copia unica, realizzati con una ULF CAMERA da 50×60 cm, proponendo anche lezioni individuali sul grande formato.

Sebastiano Fiorito, chimico e sperimentatore, founder del Conservatorio Fotochimica, una linea dedicata alla ricerca e alla produzione di chimiche per la fotografia analogica. Il suo approccio unisce rigore scientifico e creatività, rendendolo punto di riferimento per chi desidera avventurarsi nelle profondità tecniche della fotografia tradizionale.

Elisa Tascone, giovane fotografa di Gela, incarna l’aspetto più intuitivo e viscerale della pratica. Affascinata dalla fotosensibilità, sperimenta con cianotipia, serigrafia e rullini scaduti. Le sue immagini, cariche di colore e spensieratezza, riflettono uno sguardo infantile ma consapevole, tra gioco e inquietudine poetica.

Tutti questi percorsi si sono intrecciati nell’openspace di Spot22, punto nevralgico della cultura fotografica analogica siciliana. Oltre ad essere studio fotografico attrezzato, ospita una camera oscura inaugurata nel 2018, corsi di sviluppo e stampa, e incontri mensili dedicati alla divulgazione della fotografia analogica, ce lo racconta Valerio D’Urso.

Che legame c’è tra la lentezza dell’analogico e il respiro profondo della Sicilia?

Il legame è fortissimo ed è legato alla materia, perché la fotografia analogica è fatta di elementi, come l’alogenuro d’argento  che viene segnato dalla luce solare; è li che si forma l’immagine che diventa memoria, oggi invece la nostra memoria resta sullo smartphone e il giorno dopo non esiste più. Con l’analogico il ricordo è sempre presente, tangibile. Così come i ricordi della mia adolescenza nella mia casa di campagna, sempre vividi ed emotivamente presenti. 

Nelle sue foto sembra quasi di potere toccare l’anima delle persone. Che cosa cerca Valerio D’Urso quando guarda attraverso quel vetro smerigliato?

Cerco di togliere la maschera che ognuno di noi indossa, cerco di ritrarre l’essenza dell’essere, non quella dell’immagine fine a sé stessa, quella in cui ci si cala per mostrare il personaggio e non la persona per mero istinto di protezione. Scoprire i propri sentimenti è difficile, pericoloso. Nel ritratto tiro fuori la parte più vera e autentica di un volto. 

Quanto di sé stesso si imprime, insieme al volto degli altri, in ogni singola immagine?

Cerco sempre la spontaneità. Chi si trova davanti all’obiettivo ha sempre una sorta di protagonismo misto al disorientamento, dopo qualche scatto si crea una sorta di legame, un filo invisibile tra me e il soggetto sospeso dalla macchina che diventa fruitore di verità, di emozione data dall’anima. 

Se potesse ritrarre la Sicilia come se fosse una persona, quale espressione cercherebbe di cogliere sul suo volto?

Io la Sicilia la vedo come una donna contemporanea. Oggi le donne subiscono ancora, purtroppo, una violenza fisica e verbale. Io la Sicilia le vedo allo stesso modo, è una donna maltrattata, che va con tutti perché è una donna generosa e viene ricambiata spesso con l’aridità dei sentimenti, volendo generalizzare. Ma ci sono anche le anime sane e genuine che emergono da contesti soffocati, da difficoltà economico sociali. 

 

Tornare in Sicilia, per D’Urso, non è stato un ritorno alle origini, ma un ritorno all’essenziale. Qui, tra l’odore di sale e carta esposta, la sua fotografia si fa gesto sacrale, antidoto alla velocità e all’oblio. Il workshop non è un semplice incontro formativo, ma un’esperienza sensoriale e quasi mistica; parteciparvi significa accettare di farsi guardare davvero, di mettersi a nudo davanti a una lente che non perdona, ma accarezza.

E così, Valerio D’Urso ci ricorda che l’arte non è solo ciò che si vede, ma ciò che resta quando tutto il resto è sparito. Una traccia di luce su carta, un volto che non si lascia dimenticare.